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Running stories

Those damned 10km

Returning home, swaying through the snowy turns of San Bernardino, I reflect on my just-concluded fifth Valtellina Wine Trail.

I’ve been running for years, always finding my personal sweet spot in medium/short trail races (40-60 km). It’s the perfect balance—not too short for frantic paces, nor too long to endure nights.

In this distance, I discover harmony between joy and suffering, never letting the latter dominate and turn into a toxic experience. It’s the mystical phase of suffering that deeply imprints memories of my adventures, often emerging in the final 10 km.

Ten thousand steps, where every slight ascent becomes Manitou Spring’s incline, and every steep descent turns into a flirt with cramps. It’s the moment when one crosses the threshold of “now I can’t stop” or “I can do it,” initiating mental projections: “less than the lake’s loop” or “equivalent to a lunch break jog.”

Focusing on everything but my steps, I ignore the gps watch, which, with each glance, abruptly brings me back to reality, marking just over 400 meters covered in what felt like a kilometer.

In the last 5 km, this dimension changes again. The mental shield becomes a refreshing jog for recovery, but even this doesn’t turn into the hoped-for sedative. “I can do it” finally becomes “I did it,” unleashing an emotional storm.

Every smile, encouragement, extended hand for a high-five, every background melody, the voice of the distant speaker, causes a lump in my throat. Tears blur the view of the finish line, and in that moment, there is no other definition than: Happiness.

ITA

Tornando a casa, danzando tra le curve innevate del San Bernardino, rifletto sulla mia quinta Valtellina Wine Trail appena conclusa.
Da anni corro, e fin dall’inizio ho scelto le gare di trail medio/corto (40-60 km) come il mio “sweet spot”. Un equilibrio perfetto, dove la corsa non è né troppo breve per affrontare ritmi frenetici, né troppo lunga per attraversare le notti.
In questa distanza, trovo l’armonia tra gioia e sofferenza, senza lasciare che quest’ultima prenda il sopravvento, trasformandosi in un’esperienza tossica. È la sofferenza mistica che incide profondamente nei ricordi delle mie avventure, spesso emergendo nei 10 km finali.
Diecimila passi, in cui ogni lieve salita diventa l’incline di Manitou Spring, e ogni discesa ripida si trasforma in un flirt con i crampi. In quel momento si supera la soglia del “ora non posso fermarmi” o “ce la posso fare”, dando inizio alle proiezioni mentali: “meno del giro del lago” o “equivalente a una corsetta in pausa pranzo”.
Concentrandomi su tutto tranne che sui miei passi, ignoro l’orologio che, ad ogni occhiata, mi riporta bruscamente alla realtà, marcando appena più di 400 metri percorsi in ciò che sembrava un chilometro.
Negli ultimi 5 km, questa dimensione cambia ancora. La protezione mentale diventa una corsetta di defaticamento, ma nemmeno questa si trasforma nella sperata pillola sedativa. Il “ce la posso fare” diventa finalmente un “ce l’ho fatta”, dando inizio a una tempesta emotiva.
Ogni sorriso, incitamento, mano tesa per il cinque, ogni melodia di sottofondo e la voce dello speaker in lontananza provocano un groppo in gola. Le lacrime appannano la vista della linea d’arrivo, e in quel momento, non c’è altra definizione: Felicità.